Medico cura te stesso

Quando il medico diventa paziente

Di BENIAMINO  PALMIERI,  LUCIA PALMIERI,  FRANCESCA POLLASTRI e CHRISTIAN BARALDI - UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MODENA E REGGIO EMILIA (DIPARTIMENTO DI CHIRURGIA)

Medici e pazienti allo stesso tempo.

Senso di colpa, inadeguatezza, automedicamento. Cosa succede al medico che si ammala? Uno stoico impulso a minimizzare la malattia e continuare il proprio lavoro, oppure una consapevolezza della realtà della propria condizione? Un gruppo di medici dell’Università di Modena e Reggio ha raccolto i risultati degli sporadici lavori sull’argomento, scoprendo interessanti caratteristiche di un mestiere affetto da alti livelli di stress debilitante.

La salute e il benessere dei medici sono stati negli ultimi 20 anni oggetto di sporadici, se pur molto specifici, studi mirati ad alcuni problemi; due punti deboli per qualsiasi ricercatore che si accinga a compiere ricerche in tale ambito sono: che i medici hanno una certa riluttanza a considerarsi come pazienti, e che dottori con problemi di salute si rifiutino di seguire i consigli che solitamente forniscono ai loro pazienti (Davidson, 2003).

Del resto, la comunità medica ha sviluppato una cultura in cui la norma è lavorare con la malattia e auto-curarsi. Alcune delle virtù cardinali di un medico come la competenza, l’identità professionale, il perfezionismo, l’autonomia e lo stoicismo possono essere considerati quindi una forza ma anche una debolezza nell’assumere il ruolo di pazienti. Rutle (1993) ha svolto a Oslo un trial di due anni che vedeva coinvolti 28 medici, di cui la maggior parte ha dichiarato di avere una certa difficoltà ad assumere il ruolo di pazienti. Probabilmente vi sono dei fattori che contribuiscono a questa difficoltà come l’imbarazzo, l’illusione dell’invincibilità dei problemi legati al fatto di essere troppo impegnati e di non avere tempo da dedicare a se stessi.

Sono stati quindi selezionati dei medici col compito di curare altri medici, a cui è stata fornita una preparazione specifica per il loro ruolo. Il successo del trial supporta l’idea della creazione di un servizio che si occupi della salute dei medici. Purtroppo, attualmente, vi è una scarsa disponibilità di specialisti idonei a seguire specificatamente i medici specie in ambito psichiatrico.



Fig. 1. Reazioni del medico nei confronti di una malattia diagnosticata



 


I medici subiscono una sorta di pressione a non ammalarsi o almeno a sembrare e agire come malati (fig. 1). Essi affermano anche di percepire la responsabilità di dover continuare a lavorare indipendentemente dalla gravità dei sintomi.

Uno studio di Mc Kevitt e Morgan (1997) ha indagato il concetto di invulnerabilità nella filosofia operativa dei medici inglesi per mezzo di uno screening di questionari anonimi in due distretti territoriali comprendenti medici di famiglia ed ospedalieri. Più di 80 espressero interesse alla partecipazione, ma vennero esclusi coloro che nei tre anni precedenti non avevano subito malattie della durata di almeno un mese. La ricerca si è articolata inoltre con interviste dirette di almeno 45 minuti a 32 medici, in parte completate con dialoghi telefonici. I temi affrontati riguardavano congedi per malattia, accesso alle strutture sanitarie, meccanismi di supporto all’invalidità, ritorno al lavoro, percezione delle cure ricevute, impatto personale e professionale delle malattie e reazioni psicologiche alle stesse. In totale furono intervistati 18 maschi e 21 femmine medici di famiglia, 6 maschi e 6 femmine medici in specializzazione e 8 maschi e 5 femmine responsabili di strutture ospedaliere. L’età era compresa tra i 28 e i 65 anni.



Ventiquattro medici riferirono di malattie psichiatriche, 36 malattie fisiche e 4 sindromi psichiatriche e fisiche insieme. Uno dei bias temuto dagli autori fu il rischio di selezionare soggetti ansiosi o patofobici, ma solo un quarto degli intervistati corrispondeva a tale categoria, un quarto commentò positivamente e negativamente in egual misura le prestazioni subite in corso di malattia, mentre la metà restante si dichiarò completamente soddisfatta.

La valutazione dei dati raccolti consentì di osservare come la malattia mentale fosse prevalentemente misconosciuta ed interpretata come surmenage fisico, stress o stanchezza. Posti di fronte alla diagnosi formulata su di loro espressero imbarazzo, vergogna od orrore per tale etichetta. I medici con malattia fisica ebbero reazioni più eterogenee. Quelli con patologia cronica a lungo termine risultarono maggiormente depressi, altri espressero sensi di colpa e di inadeguatezza per essere incorsi in una malattia fisica, mentre 6 soggetti soltanto mantennero una certa equità di giudizio. Due di questi medici asserirono che né la fatica né il dolore li avrebbero comunque distolti dalla professione. Questo atteggiamento stoico e propositivo di contrapporre la professione alla malattia trova riscontro anche nella minimizzazione dei sintomi proprio per evitarne una sopravalutazione e potenzialmente una diagnosi errata. Alcuni degli intervistati espressero sensi di colpa per il sovraccarico di lavoro involontariamente procurato ai colleghi e l’intenzione di riprendere quanto prima l’attività con essi.
La maggior parte dei medici pur essendo registrati presso un medico di famiglia evitarono accuratamente di consultarlo, specie per disturbi psichici ma anche per il timore di danno alla propria carriera. Quanto alle lamentele, esse si riferivano per lo più all’ inadeguatezza di informazioni di follow-up e di supporto psicologico che sarebbe stato loro negato involontariamente essendo ritenuti in gran parte autosufficienti a gestire la propria malattia.

Anche se questo lavoro è numericamente limitato ed esamina medici spontaneamente reclutati, esso esprime e stigmatizza taluni aspetti di rilevanza generale per lo più culturale. Tutti ad esempio percepirono il disagio delle infermità tra curante e paziente, la sottovalutazione dei sintomi più precoci, per i più svariati motivi, così come il concetto che “l’ammalarsi non è una caratteristica dei medici”; del resto il potere carismatico che il medico ha di trasformare con un atto diagnostico il cliente in paziente, viene neutralizzato quando tale criterio è applicato su se stessi, essendo anche amplificato dall’opinione comune.

Si impone comunque il quesito della qualità della prestazione professionale in un medico ammalato che persista a negare la propria infermità, specie se di natura fisica. Incombe altresì il dilemma se i medici affetti da malattia debbano essere trattati in modo diverso nei percorsi sanitari; la riservatezza nell’autodefinirsi malato è generalmente indirizzata a mantenere un presunto prestigio d’invulnerabilità che verrebbe inesorabilmente a cadere. E’ anche discutibile se si possa proporre una politica di salute pubblica rivolta a prevenire e tutelare le malattie dei medici, specie quelle legate all’insoddisfazione per l’inefficienza e inadeguatezza delle strutture di esercizio della professione.

I medici tendono ad eseguire autonomamente la diagnosi e la cura della propria infermità con anche l’auto-prescrizione di farmaci, concentrando l’attenzione solo sull’aspetto sintomatico, ma non eziologico, probabilmente perché fuorviati dall’angoscia di una presa di coscienza obiettiva della loro reale situazione. L’organizzazione gestionale altamente integrata e strutturata del lavoro medico favorisce la ricerca da parte del medico delle consulenze informali e confidenziali di “corridoio” presso amici specialisti e colleghi, anziché sottostare a un preciso protocollo formale.

L’auto-trattamento pecca però di una mancanza d’oggettività, di approssimazione, di non comparabilità dei dati ed è particolarmente inappropriato in caso di malattie mentali. Interessante a questo proposito è lo studio di Christie VM e Ingstad B (1997) che ha coinvolto 39 medici di base norvegesi sottoposti a questionari e interviste telefoniche e 49 medici di base che hanno scritto l’evoluzione delle loro malattie. L’analisi dei dati ha permesso di evidenziare i principali dilemmi dei medici durante i diversi stadi evolutivi. Il risultato ottenuto fu che inizialmente i medici tendevano a posticipare la richiesta d’aiuto, cercando di negare o nascondere di essere gravemente malati sia a se stessi che agli altri. Analizzando i motivi di quest’atteggiamento si è compreso che, per alcuni vi era difficoltà ad abbandonare il ruolo del medico per assumere quello di paziente, mentre altri, che avrebbero desiderato essere considerati solo come pazienti, percepivano che questa sorta di regressione emozionale, pur essendo un’esigenza, non era loro istituzionalmente consentita. Spesso, inoltre, essere curati da altri medici causava una sorta di conflitto di ruoli, il che comportava una certa insicurezza e incertezza da parte dei medici curanti nel trattare i colleghi.

I medici, nonostante abbiano dei livelli di mortalità inferiori rispetto alla media della popolazione, hanno però, un rischio maggiore d’essere affetti da alcuni problemi di natura fisica e psicologica.

Chi esercita la professione medica, rispetto alla media della popolazione, è maggiormente interessato da una o più delle tre “D”: “Drugs, drink and depression” vale a dire farmaci, alcolismo e depressione (compreso il suicidio, Schattner P, Davidson S, Serry N. (2004)).
Un gruppo sempre più ampio di medici è significativamente affetto da stress, nonostante ciò non sia di gravità tale da impedire loro di praticare la professione. Questi dati sono al centro del dibattito per stabilire se la causa di stress sia da associare maggiormente al lavoro che svolgono o ai tratti della loro personalità. Il Ministero della Salute del Galles sta compilando un registro dei medici e studenti di medicina che hanno avuto esperienza di malattie psichiatriche o di abuso di sostanze, di solito mediante la relazione di colleghi preposti alla sorveglianza, al fine di decidere come queste persone possano continuare a lavorare o studiare proteggendo l’interesse pubblico.

Da Schattner e collaboratori (2004) è stato svolto uno screening sui medici australiani e neozelandesi mediante un questionario di valutazione dell’ansia e della depressione, che ha evidenziato come i più alti livelli di stress si potessero riscontrare fra i medici di famiglia, rispetto alla media della popolazione.

Conclusioni simili sono risultate da uno studio svolto da Chambers in Gran Bretagna nel 1996, in cui si ricercava una correlazione tra la personalità e l’attività lavorativa, mediante un questionario relativo ad ansia e depressione nei medici di base. Si è notato che i casi di depressione (10% non grave e 16% borderline) erano statisticamente associati alla mancanza di tempo libero a causa del lavoro stressante per le continue richieste dei pazienti, alla quantità ingente di telefonate, a una vita frenetica, all’essere single e senza figli, all’abuso di alcool, all’obesità, a una carriera insoddisfacente e a lavorare in ambienti poco stimolanti (Fig. 2).



Fig. 2. Fattori di rischio



Si deduce che i problemi di salute mentale dei medici di base possono essere proporzionali al carico di lavoro.


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